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3 novembre 2011

Mandanici accogliente

Ingrandimento immagineSiamo negli anni tragici della seconda guerra mondiale che vanno dal 1940 all'agosto del 1943. Mandanici era un paese povero ma con un cuore grande, immenso. Loteta ci dice “non era un paese povero” la sua ottica di giovanotto benestante era certamente diversa. Moltissime persone scapparono dalla città e dai paesi di marina per rifugiarsi nei paesi di montagna della provincia messinese. C'era poco o niente da mangiare ma quel poco i mandanicesi riuscirono a dividerlo con i nuovi ospiti. In quel periodo almeno duemila sfollati utilizzarono le fatiscenti case presenti nel paese e “i caseddi” nelle campagne circostanti per evitare i pericoli derivanti dai continui bombardamenti sulla martoriata città dello stretto. Tutti sono stati accolti come fratelli, con molti di loro i rapporti amicali sono rimasti intatti per lungo tempo.

Fece bene il Direttore del museo dell'epoca a trasportare le opere d'arte ivi presenti a Mandanici, infatti i tedeschi subito dopo lo utilizzarono come provvisoria dimora e chissà come sarebbe andata a finire.

Giuseppe Loteta nel suo “romanzo messinese” edito da Pungitopo rievoca ricordi autobiografici e ancora una volta utilizza il nostro sito per l'affetto che nutre nei confronti del nostro paese rappresentandone il mentore della diffusione dell'immagine di Mandanici in contesti più ampi.

Non si tratta di notizie romanzate, ma di notizie vere. E' una fotografia raccontata con grande dovizia di particolari dal nostro autore.

SFOLLAMENTO

Quando i Cogliani arrivarono a Mandanici, il paese era cambiato. Prima, quando le bombe americane non avevano ancora costretto i messinesi a trovare rifugio sulle colline, Mandanici era un centro agricolo che contava un migliaio di abitanti. A sud ovest di Messina, dalla quale distava poche decine di chilometri, tra 400 e 500 metri di altitudine, sul versante ionico dei monti Peloritani, non era un paese povero. Principale fonte di ricchezza, l'ulivo. E quasi tutti ne beneficiavano con il loro piccolo appezzamento di terra. Frequentato dai cacciatori di tutta la Sicilia per essere una tappa obbligata del volo migratorio dei tordi, si trasformava nei periodi giusti in un grande centro venatorio. Quando arrivarono i Cogliani, gli abitanti si erano moltiplicati per effetto dello sfollamento.

La molla che aveva fatto scattare l'esodo da Messina era stato il bombardamento del 30 gennaio del 1943. L'allarme era suonato a mezzogiorno, come avveniva da parecchi giorni. Ma non si trattava questa volta dei soliti aerei britannici che giravano finché non avevano individuato gli obiettivi militari da colpire e poi sganciavano con cura il loro carico di piccole bombe e di spezzoni incendiari. A sorvolare il cielo di Messina il 30 gennaio erano le grandi formazioni dei quadrimotori americani, le squadriglie che lasciavano cadere indiscriminatamente da diecimila metri d'altezza ordigni esplosivi da dieci tonnellate sulle case e le strade. Era il primo, micidiale, bombardamento a tappeto su Messina. Altri ne sarebbero seguiti, quotidianamente, fino all'arrivo degli eserciti alleati. Ma già questo aveva causato distruzione, morte, paura. E i messinesi che potevano farlo si erano rifugiati nei paesi della provincia.

Anche i Cogliani andarono via dopo il bombardamento di gennaio. E arrivarono a Mandanici. Il padre e la madre erano due letterati, due cultori dei classici. Alto, con gli occhiali, lui; bei lineamenti, una grande selva di capelli bianchi, lei. Avevano avuto sei figli, tre maschi e tre femmine e avevano messo a dura prova i nervi dell'ufficiale di stato civile che aveva il compito di registrarne i nomi. La prima femmina l'avevano chiamata Helle, "fiamma che arde", la seconda Helda, come l'eroina di molte saghe nibelungiche e la terza Heos, "aurora". Il primo maschio Elio, il secondo Eros e il terzo Eolo, gli dei del sole, dell’amore e dei venti. Potevano dirsi stravaganti il professore e la professoressa? Allora mi parve di sì e non soltanto per i nomi. Ora, francamente, non so. Forse, stravaganza non era, ma assenza assoluta di ogni convenzione, maturata alla luce di una cultura che sapeva vedere nelle cose, distinguere, setacciare e alla fine soffermarsi su ciò che è veramente importante per il genere umano, tralasciando aristocraticamente il resto.

Non li conobbi tutti allo stesso modo. Della Helle di allora ho pochi ricordi e soltanto un ricordo confuso di Eros, l'aviatore, che credo di aver visto soltanto una volta, durante una sua sporadica visita a Mandanici. Elio, il maggiore, era medico. Viso rotondo, anche lui occhiali, appena stempiato, capelli lisci pettinati all'indietro, lo vedo ancora impegnato in interminabili discussioni con mio zio Gino Mazzullo. Più che discussioni, giacché le loro opinioni sull'argomento preferito collimavano, era un coro. Un coro di maledizioni e di insulti ragionati che si riversavano quotidianamente su Mussolini e sul fascismo, sui gerarchi locali e su quelli nazionali, sugli artefici della dittatura prima e della guerra poi. Io e mia madre abitavamo nell'antica casa di famiglia, insieme con il nonno, zii e cugini. Ma i mobili della casa di Messina, anch'essi sfollati, li avevamo stipati in uno stanzone affittato. E lì, all'incerta luce che proveniva da una finestra con le persiane abbassate, andava spesso a rifugiarsi il dottor Elio. Erano i libri della biblioteca di mio padre, morto due anni prima, che l'attraevano. Lo ricordo serio, appoggiato a una parete, con un volume in mano. E, chissà perchè, curiose fantasie adolescenziali, mi parve essere uno dei personaggi dei "gialli" di Edgar Wallace, di cui allora facevo scorpacciate. Forse un agente segreto o un misterioso scienziato. Uno dalla parte dei buoni, comunque.

Conoscevo meglio Eolo ed Heos, i più giovani. Lui alto, con una bella barba rossa, lei minuta, aggraziata, intorno ai vent'anni l'uno e l'altra. Avrei ritrovato Eolo a Messina, a liberazione avvenuta, nella federazione giovanile comunista. Credo sia stato il primo della sua famiglia a iscriversi al Pci. E proprio a Mandanici aveva cominciato a maturare questa decisione.

In paese la guerra era più lontana di quanto non lo fosse in città. Si avvicinò drammaticamente il giorno in cui due aerei da caccia si affrontarono a bassa quota sul cielo di Mandanici e una raffica di mitragliatrice uccise un vecchio che stava a guardare in piazza lo spettacolo. Era presente, ma in toni smorzati, quando gli altoparlanti della radio piazzata nella camera del fascio diffondevano i bollettini di guerra. O quando vedevamo distintamente le squadriglie di bombardieri, piccoli come mosche, dirigersi su Messina con il loro carico di morte. Ma era lontana quando, soprattutto nei giovani, le ragioni della vita prevalevano. Io ero il più piccolo, ma mi aggregavo al gruppo dei "grandi". Con un vecchio grammofono a manovella si ascoltavano i dischi a 78 giri e si ballava nella casa di campagna di Emilio Argiroffi (futuro senatore e sindaco di Taurianova), appena fuori del paese, a Ficarazzi. Si facevano gite in montagna e si discuteva molto, di tutto. Gli argomenti preferiti erano inevitabilmente di attualità. Si faceva strada in chi era stato balilla, avanguardista o giovane fascista la consapevolezza che ci avevano tenuti lontano dalla realtà per tutta la nostra infanzia e per buona parte della nostra giovinezza. Heos Cogliani conobbe Aurelio Lenzo, un ragazzo di Mandanici, e se ne innamorò, ricambiata. Qualche tempo dopo si sposarono.

La permanenza degli sfollati aveva creato qualche problema all’economia agricola del paese. Le limitate risorse alimentari locali, appena sufficienti nell’anteguerra, non bastavano più per tutte le bocche da sfamare. Non era la fame che negli stessi giorni si soffriva in città. Qualcosa si riusciva a racimolare. Ma era pur sempre una sofferenza che si aggiungeva alle altre causate dalla guerra. E chi aveva ancora qualche lira da parte poteva conquistare il vitto necessario alla sopravvivenza e forse qualcosa di più. Anche a costo di macinare un bel po’ di chilometri a piedi per andare nei paesi dove c’erano meno sfollati e più cibo. Per andare a Missario si dovevano superare una collina e lunghi tratti di torrente. Ma ne valeva la pena, perchè lì i macellai avevano ancora qualche bestia da ammazzare e si diceva che facessero addirittura dei salami, genere scomparso dall’inizio della guerra.

Alle sei di pomeriggio, davanti alla casa del fascio, seduti l’uno di fronte all’altro e con una folla di spettatori attorno, si confrontavano due posizioni religiose. Il cavaliere Puglisi Allegra, noto commerciante di Messina, cattolicissimo, si scontrava con Peppino La Scala, pastore valdese dalla fluente barba bianca. Non era un pacato dibattito ideologico: era una guerra. Il commerciante gridava e il pastore ironizzava, incrementando con quest’atteggiamento le sfuriate di Puglisi Allegra. Uno spettacolo!

Alla casa del fascio, soprattutto, si commentavano le sorti della guerra. Che non andasse bene per gli eserciti dell’Asse era chiaro a tutti, paesani o sfollati, fascisti o antifascisti che fossero. Ma anche i guerrafondai più irriducibili si convinsero che i camerati tedeschi non erano quei fraterni alleati decantati dalla propaganda fascista quando un paio di blindati della Wermacht salirono a Mandanici con le mitragliatrici spianate e con atteggiamento minaccioso. Che cosa ci facessero e dove volessero andare resta tuttora un mistero. Forse credevano che la strada Roccalumera-Mandanici arrivasse fino a Castroreale e da lì sul versante tirrenico. Qualche cartina dava questa falsa indicazione. Una strada, in realtà, progettata da decenni e mai realizzata. Ma più che buona per ingannare i tedeschi che, arrivati al limite di transitabilità, si accamparono per qualche giorno, tenendo lontani i curiosi con raffiche di mitra, e poi tornarono indietro, sempre sparando. Si disse che avevano minato il ponte di Pietrafitta, ma non era vero.

In quei mesi Mandanici fu anche sede di un grosso patrimonio artistico. Alle prime bombe, i beni più preziosi del museo di Messina furono trasportati a Mandanici e accatastati nella chiesa della Trinità. Sovrintendeva all’operazione, gridando come un indemoniato durante il passaggio a braccia dei quadri dagli autocarri alla chiesa, il professor Catanuto, direttore del museo e insegnante di storia dell’arte al liceo Maurolico di Messina. I “suoi” Caravaggio e Antonello si salvarono e ritornarono a casa quando in Sicilia si spense l’eco degli ultimi spari. Lui fece, come gli altri, la sua vita da sfollato.

Che i tedeschi stessero per andar via, al nord, con ciò che restava dell’esercito italiano in Sicilia, lo capimmo quando fu abbandonato. a pochi chilometri dal paese, un deposito di munizioni prima strettamente sorvegliato. L’incoscienza infantile spinse noi ragazzi a far incetta di proiettili d’ogni tipo e d’ogni calibro, estraendoli dalle loro capsule a colpi di pietra. La balestite del bossolo veniva poi bruciata in allegri falò. Quando arrivarono gli alleati fu festa grande. Per noi la guerra era finita. Tutti di corsa a Roccalumera, quasi dieci chilometri di distanza, per vedere le navi dei liberatori. Mai più viste tante insieme, l'una dietro l'altra o a fianco all'altra. Il mare era completamente coperto dalla marina angloamericana. A Mandanici, dopo qualche giorno, salì un piccolo reparto di soldati inglesi, con le prime sigarette made in England, il primo pane bianco, il burro, le scatolette di carne e di polvere di piselli. Gli sfollati, lentamente, ritornarono in città. Era il mese di agosto del 1943.

Giuseppe Loteta