Quando i Cogliani arrivarono a
Mandanici, il paese era cambiato. Prima, quando le bombe americane non
avevano ancora costretto i messinesi a trovare rifugio sulle colline,
Mandanici era un centro agricolo che contava un migliaio di abitanti. A sud
ovest di Messina, dalla quale distava poche decine di chilometri, tra 400 e
500 metri di altitudine, sul versante ionico dei monti Peloritani, non era
un paese povero. Principale fonte di ricchezza, l'ulivo. E quasi tutti ne
beneficiavano con il loro piccolo appezzamento di terra. Frequentato dai
cacciatori di tutta la Sicilia per essere una tappa obbligata del volo
migratorio dei tordi, si trasformava nei periodi giusti in un grande centro
venatorio. Quando arrivarono i Cogliani, gli abitanti si erano moltiplicati
per effetto dello sfollamento.
La molla che aveva fatto scattare
l'esodo da Messina era stato il bombardamento del 30 gennaio del 1943.
L'allarme era suonato a mezzogiorno, come avveniva da parecchi giorni. Ma
non si trattava questa volta dei soliti aerei britannici che giravano finché
non avevano individuato gli obiettivi militari da colpire e poi sganciavano
con cura il loro carico di piccole bombe e di spezzoni incendiari. A
sorvolare il cielo di Messina il 30 gennaio erano le grandi formazioni dei
quadrimotori americani, le squadriglie che lasciavano cadere
indiscriminatamente da diecimila metri d'altezza ordigni esplosivi da dieci
tonnellate sulle case e le strade. Era il primo, micidiale, bombardamento a
tappeto su Messina. Altri ne sarebbero seguiti, quotidianamente, fino
all'arrivo degli eserciti alleati. Ma già questo aveva causato distruzione,
morte, paura. E i messinesi che potevano farlo si erano rifugiati nei paesi
della provincia.
Anche i Cogliani andarono via dopo
il bombardamento di gennaio. E arrivarono a Mandanici. Il padre e la madre
erano due letterati, due cultori dei classici. Alto, con gli occhiali, lui;
bei lineamenti, una grande selva di capelli bianchi, lei. Avevano avuto sei
figli, tre maschi e tre femmine e avevano messo a dura prova i nervi
dell'ufficiale di stato civile che aveva il compito di registrarne i nomi.
La prima femmina l'avevano chiamata Helle, "fiamma che arde", la seconda
Helda, come l'eroina di molte saghe nibelungiche e la terza Heos, "aurora".
Il primo maschio Elio, il secondo Eros e il terzo Eolo, gli dei del sole,
dell’amore e dei venti. Potevano dirsi stravaganti il professore e la
professoressa? Allora mi parve di sì e non soltanto per i nomi. Ora,
francamente, non so. Forse, stravaganza non era, ma assenza assoluta di ogni
convenzione, maturata alla luce di una cultura che sapeva vedere nelle cose,
distinguere, setacciare e alla fine soffermarsi su ciò che è veramente
importante per il genere umano, tralasciando aristocraticamente il resto.
Non li conobbi tutti allo stesso
modo. Della Helle di allora ho pochi ricordi e soltanto un ricordo confuso
di Eros, l'aviatore, che credo di aver visto soltanto una volta, durante una
sua sporadica visita a Mandanici. Elio, il maggiore, era medico. Viso
rotondo, anche lui occhiali, appena stempiato, capelli lisci pettinati
all'indietro, lo vedo ancora impegnato in interminabili discussioni con mio
zio Gino Mazzullo. Più che discussioni, giacché le loro opinioni
sull'argomento preferito collimavano, era un coro. Un coro di maledizioni e
di insulti ragionati che si riversavano quotidianamente su Mussolini e sul
fascismo, sui gerarchi locali e su quelli nazionali, sugli artefici della
dittatura prima e della guerra poi. Io e mia madre abitavamo nell'antica
casa di famiglia, insieme con il nonno, zii e cugini. Ma i mobili della casa
di Messina, anch'essi sfollati, li avevamo stipati in uno stanzone
affittato. E lì, all'incerta luce che proveniva da una finestra con le
persiane abbassate, andava spesso a rifugiarsi il dottor Elio. Erano i libri
della biblioteca di mio padre, morto due anni prima, che l'attraevano. Lo
ricordo serio, appoggiato a una parete, con un volume in mano. E, chissà
perchè, curiose fantasie adolescenziali, mi parve essere uno dei personaggi
dei "gialli" di Edgar Wallace, di cui allora facevo scorpacciate. Forse un
agente segreto o un misterioso scienziato. Uno dalla parte dei buoni,
comunque.
Conoscevo meglio Eolo ed Heos, i più
giovani. Lui alto, con una bella barba rossa, lei minuta, aggraziata,
intorno ai vent'anni l'uno e l'altra. Avrei ritrovato Eolo a Messina, a
liberazione avvenuta, nella federazione giovanile comunista. Credo sia stato
il primo della sua famiglia a iscriversi al Pci. E proprio a Mandanici aveva
cominciato a maturare questa decisione.
In paese la guerra era più lontana
di quanto non lo fosse in città. Si avvicinò drammaticamente il giorno in
cui due aerei da caccia si affrontarono a bassa quota sul cielo di Mandanici
e una raffica di mitragliatrice uccise un vecchio che stava a guardare in
piazza lo spettacolo. Era presente, ma in toni smorzati, quando gli
altoparlanti della radio piazzata nella camera del fascio diffondevano i
bollettini di guerra. O quando vedevamo distintamente le squadriglie di
bombardieri, piccoli come mosche, dirigersi su Messina con il loro carico di
morte. Ma era lontana quando, soprattutto nei giovani, le ragioni della vita
prevalevano. Io ero il più piccolo, ma mi aggregavo al gruppo dei "grandi".
Con un vecchio grammofono a manovella si ascoltavano i dischi a 78 giri e si
ballava nella casa di campagna di Emilio Argiroffi (futuro senatore e
sindaco di Taurianova), appena fuori del paese, a Ficarazzi. Si facevano
gite in montagna e si discuteva molto, di tutto. Gli argomenti preferiti
erano inevitabilmente di attualità. Si faceva strada in chi era stato
balilla, avanguardista o giovane fascista la consapevolezza che ci avevano
tenuti lontano dalla realtà per tutta la nostra infanzia e per buona parte
della nostra giovinezza. Heos Cogliani conobbe Aurelio Lenzo, un ragazzo di
Mandanici, e se ne innamorò, ricambiata. Qualche tempo dopo si sposarono.
La permanenza degli sfollati aveva
creato qualche problema all’economia agricola del paese. Le limitate risorse
alimentari locali, appena sufficienti nell’anteguerra, non bastavano più per
tutte le bocche da sfamare. Non era la fame che negli stessi giorni si
soffriva in città. Qualcosa si riusciva a racimolare. Ma era pur sempre una
sofferenza che si aggiungeva alle altre causate dalla guerra. E chi aveva
ancora qualche lira da parte poteva conquistare il vitto necessario alla
sopravvivenza e forse qualcosa di più. Anche a costo di macinare un bel po’
di chilometri a piedi per andare nei paesi dove c’erano meno sfollati e più
cibo. Per andare a Missario si dovevano superare una collina e lunghi tratti
di torrente. Ma ne valeva la pena, perchè lì i macellai avevano ancora
qualche bestia da ammazzare e si diceva che facessero addirittura dei
salami, genere scomparso dall’inizio della guerra.
Alle sei di pomeriggio, davanti alla
casa del fascio, seduti l’uno di fronte all’altro e con una folla di
spettatori attorno, si confrontavano due posizioni religiose. Il cavaliere
Puglisi Allegra, noto commerciante di Messina, cattolicissimo, si scontrava
con Peppino La Scala, pastore valdese dalla fluente barba bianca. Non era un
pacato dibattito ideologico: era una guerra. Il commerciante gridava e il
pastore ironizzava, incrementando con quest’atteggiamento le sfuriate di
Puglisi Allegra. Uno spettacolo!
Alla casa del fascio, soprattutto,
si commentavano le sorti della guerra. Che non andasse bene per gli eserciti
dell’Asse era chiaro a tutti, paesani o sfollati, fascisti o antifascisti
che fossero. Ma anche i guerrafondai più irriducibili si convinsero che i
camerati tedeschi non erano quei fraterni alleati decantati dalla propaganda
fascista quando un paio di blindati della Wermacht salirono a Mandanici con
le mitragliatrici spianate e con atteggiamento minaccioso. Che cosa ci
facessero e dove volessero andare resta tuttora un mistero. Forse credevano
che la strada Roccalumera-Mandanici arrivasse fino a Castroreale e da lì sul
versante tirrenico. Qualche cartina dava questa falsa indicazione. Una
strada, in realtà, progettata da decenni e mai realizzata. Ma più che buona
per ingannare i tedeschi che, arrivati al limite di transitabilità, si
accamparono per qualche giorno, tenendo lontani i curiosi con raffiche di
mitra, e poi tornarono indietro, sempre sparando. Si disse che avevano
minato il ponte di Pietrafitta, ma non era vero.
In quei mesi Mandanici fu anche sede
di un grosso patrimonio artistico. Alle prime bombe, i beni più preziosi del
museo di Messina furono trasportati a Mandanici e accatastati nella chiesa
della Trinità. Sovrintendeva all’operazione, gridando come un indemoniato
durante il passaggio a braccia dei quadri dagli autocarri alla chiesa, il
professor Catanuto, direttore del museo e insegnante di storia dell’arte al
liceo Maurolico di Messina. I “suoi” Caravaggio e Antonello si salvarono e
ritornarono a casa quando in Sicilia si spense l’eco degli ultimi spari. Lui
fece, come gli altri, la sua vita da sfollato.
Che i tedeschi
stessero per andar via, al nord, con ciò che restava dell’esercito italiano
in Sicilia, lo capimmo quando fu abbandonato. a pochi chilometri dal paese,
un deposito di munizioni prima strettamente sorvegliato. L’incoscienza
infantile spinse noi ragazzi a far incetta di proiettili d’ogni tipo e
d’ogni calibro, estraendoli dalle loro capsule a colpi di pietra. La
balestite del bossolo veniva poi bruciata in allegri falò. Quando arrivarono
gli alleati fu festa grande. Per noi la guerra era finita. Tutti di corsa a
Roccalumera, quasi dieci chilometri di distanza, per vedere le navi dei
liberatori. Mai più viste tante insieme, l'una dietro l'altra o a fianco
all'altra. Il mare era completamente coperto dalla marina angloamericana. A
Mandanici, dopo qualche giorno, salì un piccolo reparto di soldati inglesi,
con le prime sigarette made in England, il primo pane bianco, il
burro, le scatolette di carne e di polvere di piselli. Gli sfollati,
lentamente, ritornarono in città. Era il mese di agosto del 1943.
Giuseppe Loteta