29 novembre
2011
Aristide di
Giuseppe Loteta
Ancora un
angolo di vita vissuta raccontata da Giuseppe Loteta e già pubblicato
sull'ultimo suo sforzo letterario “Romanzo messinese” edito da Pungitopo.
Aristide pur
essendo in possesso di un nome così altisonante era una persona
semplice, buona, il lavoro prima di tutto, un'unica figlia,tre nipoti. Anch'io
lo ricordo di domenica giocare “e cciappi” o “e brigghia” davanti al sagrato
della Chiesa della SS.Trinità quand'era ancora in terra battuta o sul ponte
Cavallo. Altro elemento
che lo contraddistingueva era la sigaretta, le nazionali o le mitiche alfa
senza filtro, che sempre pendeva dalle sue labbra, molto probabilmente, come
si dice in questi casi, lo faceva per risparmiare i cerini.
Come sempre
ringraziamo Giuseppe Loteta perché ci dà la possibilità di leggere in modo
piacevole la vita vissuta della gente di Mandanici, prima che il giovane
nipote Aristide prendesse la sua moto sfavillante per andare via, per farvi
ritorno solo sporadicamente magari per farsi tagliare i capelli dal suo
vecchio barbiere di fiducia.
ARISTIDE
"Aristide!". Imperiosa e cristallina, la voce fa uscire il
giovane dal salone del barbiere. A chiamarlo una donna, giovane e carina. E
lui le va incontro sorridendo. I due si prendono per mano e, parlando
ininterrottamente, si allontanano di qualche passo. Aristide sui vent'anni,
alto, bruno, un filo di barba intorno al mento, maglietta e Jeans. Con la
stessa disinvoltura, gli stessi abiti, la stessa faccia, potrebbe sbucare
fuori senza sembrare fuori posto da una discoteca di città da una
facoltuniversitaria o da qualsiasi altro luogo. Il salone che ha appena
lasciato l'unico di Mandanici, paese agricolo di poche centinaia di abitanti
a sud ovest di Messina, in collina. E fa tutt'uno con il bar della porta
accanto. E lì il centro del paese, dove tra un caffè una granita si
commentano le ultime novità si gioca a carte e si ricordano i vecchi
pettegolezzi.
Sentendolo chiamare, alzo gli occhi. Decenni prima un altro
Aristide era stato mezzadro in un podere della famiglia di mia madre. E suo
nipote il ragazzo? Non so che cosa rispondere. I due sono molto diversi. Ma
diverso anche il paese di oggi da quello degli ultimi anni dell'anteguerra.
Non c'era luce elettrica, allora, ma candele, lumi a petrolio e a carburo,
lanterne che lanciavano fiochi cerchi luminosi nel buio fitto delle strade e
dei vicoli. Nemmeno acqua corrente, sostituita da fontane e da lavatoi dove
lunghe file di donne sbattevano e sciacquavano i panni familiari. L'unica
automobile era una vecchia Fiat 501 degli unici patentati del paese, i
fratelli Papandrea. A colpirmi allora, ma anche adesso, il nome. Aristide?
Come viene fuori a Mandanici un nome proprio dell'antica Grecia? Il più
famoso degli Aristide era stato un ateniese vissuto mezzo millennio prima di
Cristo, ideatore dei piani militari che avevano permesso ai greci di
sconfiggere i persiani a Maratona. Poi ne erano venuti fuori almeno altri
due: un retore e un letterato. Ma chi, quando e perché aveva cominciato ad
imporre a un neonato siciliano questo nome? E' vero che Mandanici vanta
origini greche. Ne fanno fede le monete trovate sotto il sagrato della
chiesa, quando a un sindaco venne in mente di sostituire la pietra lavica
che pavimentava la piazza con un anonimo asfalto. E tuttavia si stenta a
pensare che di generazione in generazione il nome Aristide abbia
attraversato i millenni in un ceppo contadino per arrivare fino al mezzadro
e al ragazzo catapultato fuori dal salone da una voce femminile.
Aristide senior era piccolo e di pelle scura, neri i capelli
che col passare delle stagioni avevo visto diventare grigi e poi bianchi.
Dall'alba al tramonto lavorava in campagna. E quando ritornava di sera in
paese, con il suo inseparabile asino e le bisacce colme di frutti della
terra o di legna da ardere nell'inverno, mangiava in fretta un boccone
preparato dalla moglie e andava a letto. Lo si vedeva, curvo sulle zolle, al
termine di lunghe passeggiate che portavano fino al pezzo di terra che il
mezzadro coltivava. Lo si vedeva anche quando andava a casa di mio nonno per
rendere conto del suo lavoro e di domenica nella piazza del paese, dove
mostrava la sua valentia di giocatore di "ciappe", pietre che si lanciavano
dietro una più piccola, un po' come nel gioco delle bocce, e di bevitore di
vino nelle partite di "padrone e sotto", in taverna, dove un gesto o una
parola fuori posto potevano generare grandi liti e inimicizie durature. Non
gli avevo mai sentito pronunciare insieme più di sei o sette parole, spesso
accompagnate da un timido sorriso. Parole e sorrisi che si moltiplicavano
soltanto in tempo di vendemmia, quando l'aria più fresca dell'esordiente
autunno, il ritmo incalzante dei piedi nudi che spremevano i grappoli, gli
effluvi del mosto appena versato nella vasca del palmento e la mangiata
rituale di pescestocco che concludeva la giornata, rendevano tutti più
disposti alla conversazione e al riso.
Guardo ancora una volta i due e mi guardo intorno. Aristide
junior e la ragazza hanno messo i caschi in testa e inforcato una moto tutta
luci e colori. Ma prima lei ha estratto dalla borsa un telefono cellulare e
risposto al trillo della suoneria modulato su un motivo di successo. Poi
scompaiono. Intorno, giù sera, la luna colpisce tetti e antenne televisive.
Ma non proietta, come un tempo, ombre umane sul selciato. Luci diffuse e
insegne luminose indeboliscono il percorso argenteo nell'ultimo tratto. E
davvero Aristide nipote di Aristide? Non lo chiesi a lui né ad altri. E
ancora non lo so.
Giuseppe Loteta |