Riprendo
la presentazione dell’ottimo pamphlet di Lorenzo Del Boca, “Maledetti
Savoia”, pubblicato da Piemme. Alla fine del testo, l’autore
conclude i suoi studi con un riferimento ai nostri tempi. Con la scusa
dell’Unità d’Italia ci hanno fatto ingoiare diversi rospi, tante leggende,
truffe, imbrogli, bugie, e mistificazioni. In pratica per Del Boca, quello
che è successo centocinquant’anni fa, per certi versi, si sta ripetendo ai
giorni nostri.“L’atto di fondazione dello stato ha finito per
pregiudicare anche quelli successivi. E, infatti, da allora poco è cambiato,
e pochissimo nella sostanza. Legittimo o bastardo che sia, il paese di oggi
è figlio di quello di ieri”. Del resto il grosso debito pubblico di oggi
risale all’unità d’Italia.
“I
personaggi dell’Ottocento, politici corrotti, ufficiali mestatori,
traffichini di regime, fascisti ‘ante litteram’, burocrati inefficienti
ricchi della sola prosopopea, magistrati dimentichi della giustizia,
assomigliano troppo a quelli che compaiano quotidianamente nelle cronache
della vigilia dell’anno 2000. Come se, in filigrana, gli uni fossero
speculari agli altri”.
Così è potuto accadere che “mentre i militari attuavano l’occupazione
dell’Italia meridionale aprendosi un varco a cannonate, i finanzieri
d’assalto la depredavano svuotandone le casseforti”. E’ capitato con
l’affare milionario delle ferrovie, le Regie tabaccherie, il crack della
Banca Romana. A depredare il sud ci ha pensato subito il generale Garibaldi,
con la scusa dell’Unità d’Italia si mise a rubare presso il Banco di
Sicilia.“Appena entrato nella Palermo che aveva occupato, si fece
consegnare dal banco di Sicilia 2.178.818 dei 5 milioni di ducati che erano
custoditi. Lasciò un pezzo di carta con scritto: ‘per ricevuta di spese
di guerra’ e la promessa che il nuovo stato avrebbe restituito tutto e
rimesso i conti in ordine. Quel foglietto restò negli archivi dell’istituto:
prima in quello contabile e poi in quello storico”. Tra l’altro l’anno
precedente, il direttore del Regio Banco aveva dovuto chiamare gli operai
per rinforzare il pavimento che, non bastava per sostenere il tesoro di
lingotti d’oro conservato in cassaforte. Esempio di floridezza del Regno
delle due Sicilie.
Ritornando all’impresa dei Mille, per la verità anche nell’altro successivo
testo di Del Boca, “Indietro Savoia” del 2003, edito da
Piemme, si possono trovare ulteriori documenti per l’argomento che sto
trattando. Lo storico ricorda che l’”impresa”, è stata possibile grazie alla
mafia e agli intrighi commerciale inglesi.“La mala-Sicilia aveva scelto
di chiudere con il vecchio regime in modo da facilitare la nascita del
nuovo”. Giuseppe La Masa e Giovanni Corrao furono gli uomini della
spedizione di Garibaldi che si preoccuparono di tenere i contatti con queste
realtà sociali. In realtà, i documenti sono pochi, naturalmente i vincitori,
nel tentativo di avvalorare la tesi della marcia trionfale dei liberatori,
nascosero o distrussero ogni documento che potesse dimostrare il contrario.
A tutto questo occorre aggiungere il tradimento di tutti gli alti ufficiali
borbonici a cominciare dal generale Landi a Calatafimi, dove “chi ha
visto la planimetria dello scontro si rende conto che i Mille non potevano
vincere e che i borbonici li avrebbero sconfitti, anche se avessero lanciato
soltanto sassi contro quelli che salivano arrancando”. Poi Giovanni
Lanza, che addirittura sfilò “con qualche decina di migliaia di soldati
davanti ai garibaldini che erano in numero enormemente inferiore e, per la
verità, anche male in arnese”. Addirittura un militare tentò di
obiettare: “Ma Eccellè, vedete quanti siamo, e dobbiamo scappare?”
Infatti, il Regno delle due Sicilie si stava liquefacendo come un gelato di
panna al solleone, il povero inesperto, insicuro e, forse troppo educato,
Francesco II, in un mondo dove tutto sembrava impazzito, era circondato da
gente inaffidabili. L’unica persona di cui si poteva fidare era la sua
giovane moglie, Maria Sofia, figlia di Massimiliano e Ludovica di
Wittelsbach, sorella della più famosa Sissi.
I
due giovani sovrani hanno mostrato il loro valore soltanto nelle battaglie
finali del Volturno e soprattutto nell’ultima eroica resistenza nella
fortezza di Gaeta, “Francesco II e la regina Maria Sofia si mostrarono
all’altezza della situazione. Lui riscattò l’immagine di mollaccione, lei fu
donna di fascino e trascinò l’entusiasmo dei giovani nobili d’Europa”.
Mentre Garibaldi scortato dagli uomini della camorra di don Liborio Romano
entrava trionfante a Napoli, dove anche qui trovò ad aspettarlo tutte le
riserve auree del Banco di Napoli e il tesoro lasciato dal giovane re
napoletano. Una volta conclusa la pratica dell’assedio selvaggio alla
fortezza di Gaeta, i poveri superstiti soldati napoletani a migliaia furono
deportati verso i campi di concentramento del nord, di San Maurizio e
di Fenestrelle.
A
questo punto si apre il capitolo del cosiddetto Brigantaggio,
la guerra dell’esercito regio sabaudo contro il popolo meridionale, contro
il Sud che non si piegava al nuovo ordine politico.“Cari sudditi, non vi
lasceranno neanche gli occhi per piangere”, aveva scritto Francesco II,
in un anelito di compassione. Dal 1860 al 1870, nelle campagne, sulle
montagne, attorno alle città, la gente si ribellava ai nuovi padroni.
La
nuova classe politica che si era impadronita dei territori dell’ex regno dei
Borboni, non aveva esperienza amministrativa e soprattutto nessuna
conoscenza del territorio. “Le varie oligarchie regionali furono
sostituite da famiglie rivali che erano state più rapide a cambiare
casacca”. Un insieme di avventurieri, disonesti e imbecilli hanno invaso
le nuove province. “Gli invasori occuparono tutto quello che c’era da
occupare, confiscarono lo stato e poi lo trattennero come se fosse diventato
‘cosa loro’. Pertanto i mediocri magari provenienti dal Piemonte,
andarono ad occupare i posti del potere. “Il Piemonte peggiorò se stesso
e l’Italia. La legge della prevalenza del cretino trovò l’occasione per
essere applicata su larga scala”.
I
burocrati di Torino occuparono quasi tutti i pubblici uffici, gente più
corrotta degli antichi burocrati napoletani.“A fabbricare le ferrovie si
mandarono operai piemontesi i quali, oltraggiosamente, pagansi il doppio che
i napoletani”. Per lo storico Denis Mack Smith, “l’incursione del
Nord sembrava una nuova invasione barbarica”. Il malcontento era
percepibile ovunque. Anche i liberali, gli ex garibaldini, che avevano
creduto alle promesse dei piemontesi, ora erano delusi. La nuova
legislazione peggiorava le condizioni dei cittadini, poi con la Legge Pica,
si passò alla licenza di uccidere, se non bastava la forza morale,
bisognava applicare quella fisica, raccomandava Cavour.
“Cominciava
l’arte del boia”, commentò Giacinto De Sivo.“I piemontesi
instaurarono il codice militare di guerra con corti marziali e fucilazione
non soltanto per chi ‘utilizzava’ le armi contro i militari di casa
Savoia(…)anche contro coloro che genericamente ‘venivano sorpresi’ con
un’arma di qualsiasi genere”. I generali Cialdini e Pinelli si
macchiarono di crimini efferati non solo contro i cosiddetti briganti ma
anche contro la popolazione inerme. Non si possono dimenticare i numerosi
paesi bruciati e rasi al suolo come Casalduni e Pontelandolfo nel
beneventano. Il numero totale delle vittime non è certo, addirittura qualche
storico come Antonio Ciano, ipotizza un milione di morti, altri molti di
meno, tuttavia come rilevò lo storico superpartes inglese, Mack Smith,
“il numero di coloro che perirono nel corso di questa lotta fu superiore a
quello dei caduti di tutte le altre guerre del Risorgimento nazionale”.
Mi
fermo continuerò in un prossimo intervento.
S.
Teresa di Riva, 7 agosto 2013
S. Gaetano da Thiene DOMENICO BONVEGNA
domenicobonvegna@alice.it