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13 Settembre 2012

Un'educanda continentale

Rosinella Celeste scrittrice di origini messinesi, è quella stessa che da bambina venne a Mandanici insieme ad una sua zia per interrogare ed interpretare i segni durante una novena di San Giovanni. Visita raccontata mirabilmente e già pubblicata su questo sito. Rosinella Celeste ci ha fatto l'onore di inviarci un suo nuovo racconto ed è con vero piacere che lo mettiamo a disposizione di quanti si collegano a questo sito. Ci sentiamo dei privilegiati nell'ospitare una firma così importante del panorama letterario italiano.

UN ‘ EDUCANDA CONTINENTALE

Ero un’educanda continentale, quindi la più sorvegliata.

Potevo costituire un pericolo per l’educazione morale e religiosa delle altre ragazze. Le suore del Collegio mi avevano rimproverato un’aria troppo disinvolta nel discorrere, o il vezzo naturale di annodarmi un nastro tra i capelli che fluivano liberi sulle spalle a coda di cavallo ; mi davano consigli di fonetica e dizione cercando di correggere certe inflessioni dialettali triestine, comunque indelebili, e tonalità della voce troppo acute.

Il Collegio era recintato da una cancellata vegetale ( il verde intenso degli alberi di Sicilia)

E da una nuvola aromatica che le piante di gelsomino sprigionavano e che creava una specie di cortina di protezione calda e gassosa.

Una grande porta nera s’illuminava allorché dallo spiraglio appariva l’occhio bianco e acquoso della suora portinaia che introduceva gli ospiti nel salone del ricevimento.

Lì, l’arredamento era in perfetta armonia con le sensazioni di ansia e disagio che si accompagnano all’attesa. Immensi teloni grigi ricoprivano poltroncine e divani antichi, un pianoforte chiuso da un lucchetto arrugginito dava il silenzio all’aria dello stanzone, e sulle pareti altissime stavano appesi innumerevoli quadri di santi e sante, quasi immobili perché vivificati alquanto dalle mosche che si accostavano e si allontanavano insistenti , formando un’illusione di tenue movimento assieme a nuvole nere e minacciose sullo sfondo del dipinto.

Ogni Collegio possiede un suo odore caratteristico e presente; ma in quell’aria immaterialmente immobile, indugiavano vibrando, certi odori o meglio sapori (perché di petali di rose appassite si trattava), che si potevano far risalire

A non meno di cinquanta o sessant’anni avanti, mai svaniti e ancora manifestamente freschi e sensibili.

Erano le rose appassite di Santa Rita che emanavano un profumo da sortilegio ( un sortilegio che soltanto le cose danno, le persone quasi mai)..che si rinnovava nel cerimoniale, ogni primo giovedì del mese , per opera delle allieve.

Queste, in raccoglimento, sfilavano davanti ad un grande vassoio d’argento, sul quale, ammucchiati e leggeri, i petali sembravano ali di farfalle morte; e una alla volta, le fanciulline, attente, con l’indice e il pollice quasi uniti e il mignolo sollevato, prendevano dal vassoio un petalo consacrato e lo portavano alla bocca come un’ostia. Ma il petalo era più soffice e appiccicaticcio, bisognava masticarlo, e allora ne usciva il sapore agro-dolce del profumo che si era conservato, racchiuso per tanto tempo, e cioè dal mese di maggio, nelle sue venature.

E tutte attente a non deformare nella masticazione l’espressione ieratica e la tensione mistica dei volti.

Le guance si muovevano appena, morbidamente, con movimenti che non ricordavano di certo quelli dei pasti consueti; era come se masticassero per la prima volta. Tuttavia, inconsapevolmente, ripetevano gesti e abitudini che io sapevo diffusi tra gli indigeni andini i quali tengono in bocca le foglie secche di coca in modo di spremerne i principi attivi, sciogliendoli nella saliva che lentamente deglutiscono, mentre alla fine, sputano il resto fibroso dello scheletro delle foglie.

E così come gli indigeni che da questa pratica ottengono un senso illusorio di benessere, anche le allieve riuscivano, per poco, a sentire un certo stato di santità.

Tutte cose, queste che davano una forte impressione di polvere nello stanzone, tanto che io, educanda continentale, avevo denominato quel luogo “Il limbo dei genitori”. Sapevo che i miei genitori mai li avrei visti attendere, e per scorgere quelli delle mie compagne, mi nascondevo sulla torre campanaria della cappelletta, dove, rannicchiata, liberavo assieme ai colombi, pensieri leggeri e celesti come quelli dei bimbi. Il mio sguardo penetrava attraverso le vetrate, nel limbo, dove figure o solamente ombre tristi si muovevano lentamente, erette, un po’ impacciate; qualcuno fermo, nel riquadro della finestra fissava il cortile con aria stanca, ma nessuno aveva il coraggio o la minima intenzione di sedere su quelle poltrone impalpabili, evanescenti, che sembravano poter accogliere soltanto i corpi delle suore.

Ogni tanto, d’improvviso, (e io sentivo un tuffo al cuore), la porticina in fondo si spalancava e compariva la macchia di flanella bianca di una suora che teneva stretta per mano un’allieva.

Appena la mano allentava la morsa, la figlia volava nelle braccia dei genitori come una rondinella, nel suo grembiulino nero.

Sorridevo contenta per lei e mi commuovevo per me.

In Collegio si sogna molto la notte. Mi vedevo nella sala dei ricevimenti: ai piedi,al posto dei mocassini calzavo i pattini sui quali cercavo un equilibrio per rimanere immobile nell’attesa, e ciò mi procurava tanta sofferenza.

Una suora con un solo occhio stava sdraiata sul divano dalla fodera rossa, e mi indicava una strana campana di vetro, di quelle che usano in Sicilia, sia nelle case private sia nelle sacrestie, per conservare immagini, effigi di santi,o ex voto.

Dentro la campana di vetro stavano rinchiusi in torpore mortale i miei genitori, due statuine di gesso circondate da coroncine di fiori manipolati con cera colorata.

Facevo questi sogni nel grande dormitorio, vibrante come un’ arnia per i continui bisbigli, per i nostri pensieri pieni di nostalgie, per gli occhi che cercavano inquieti di leggere o di prevedere sulle pareti le linee o i tracciati di un possibile futuro. Mi svegliavo spesso e mi aggrappavo alla finestra:il cortile era buio, terminava in un orto dove non potevamo inoltrarci e ci era stato anche proibito di toccare il nespolo carico di frutti dorati, quasi fosse stato l’albero della tentazione di Eva.

Il pensionato delle studentesse universitarie, una palazzina bianca Liberty, aveva ancora la luce accesa emanata dalle grandi porte a vetri.

Nel giardino si aggirava il giardiniere sordomuto che mi ispirava il massimo rispetto perché lo sapevo cultore delicato e appassionato di rose e anche perché era l’unico uomo accettato in quella società di donne d’ogni tipo.

Anche lui guardava sognante verso i dormitori.

Vivevano nel collegio le allieve, le universitarie, le suore, le insegnanti laiche senza incarico statale e una sparuta colonia di orfanelle.

A queste venivano imposti i lavori più pesanti e umili. Prima che suonasse la campana della scuola le vedevo passare nel cortiletto, dove passava anche qualche gatto, e inoltrarsi negli scantinati umidi e scuri che ospitavano le cucine insieme ai loro miseri giacigli. Gobbe per la fatica, trasportavano carichi sproporzionati alle forze dei loro corpicini gracili. Erano ceste enormi di biancheria da letto oppure pentoloni pieni di pesce-stocco a mollo.

Ogni tanto, incuriosita e pietosa, mi avvicinavo :” Senti, come ti chiami? Sei tu che rifai il mio letto ? “ Mi sentivo rispondere : “ Vattinni ! Lo dico a Madre Pia che disturbi “u travagghiu !”

Nemmeno alla Messa potevano assistere assieme a noi educande. Per loro si era fatto spazio dietro al ballatoio dal quale sporgeva l’organo.

Sollevavo gli occhi, durante la prima parte della messa quando ancora una piccola distrazione era concessa e tollerata, e cercavo di intravvederle più distintamente; invano perché i loro volti apparivano deformati e minuscoli, nascosti dietro le grate di legno che le separavano dal resto della chiesa e da noi. A volte mi sorprendevo a pregare per loro. Ma non era necessario. Mi ricordavo quella parola “vattinni” . Quell’atto servile al quale erano soggette, si era tramutato, nelle loro confuse testoline, in un atteggiamento di fierezza e di difesa. Erano più sporche, ma molto graziose, più vivaci e più sboccate delle allieve. Vestivano grembiulini del colore della polvere e avevano i capelli ricciuti e lucidi d’olio d’oliva. Avevano l’aria smaliziata dei grandi e pensavo ne dovessero sapere delle ‘belle’ sulle ‘brutte’ cose !

Una volta furono scoperte in quattro con un rossetto. E furono punite.

Eppure la suora che le sorvegliava era spigliata quanto loro, ne aveva assorbito gli atteggiamenti e appariva diversa dalle altre suore. Prima di prendere i voti era stata una contessa in un paesino dell’interno della Sicilia…poi una delusione d’amore, si diceva… Io desideravo averla quale assistente. C’era bontà nel suo sguardo. Non sapevo come avvicinarla, finché un giorno le mostrai una foto di quando ero più piccola. E così la suora si era messa a lacrimare. Un fatto del tutto esteriore, ricordo, data l’imperturbabile compostezza che doveva usare davanti ai sentimenti del mondo.

Aveva un viso di cera come nel sogno e come nel sogno la cera si scioglieva in lacrime. Non sapevo che le suore piangessero e mi sentii turbata e responsabile.

Ma subito pensai che era anche difficile vedere le suore ridere veramente.