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29 Novembre 2019

Minerva di Giuseppe Franco Arguto

Nel paese dove nacque e crebbe mio padre e dove risiedo tuttora, viveva un uomo dai modi originali e bizzarri. Noi ragazzini, soprattutto noi che venivamo dal 'continente' a trascorrere le vacanze estive, lo prendevamo in giro perché quando lo incontravamo per le strade del paese, lui canticchiava sempre delle canzoni e ripeteva sempre gli stessi discorsi. Noi non lo capivamo e lo ritenevamo più che strano, quasi matto. In verità, Agatino, questo il suo nome, era spesso ubriaco ma non tanto da non reggersi in piedi.
Però un giorno - avrò avuto 23 o 24 anni - mi presentai al paese d'inverno (ero impegnato col mio reparto a Pantelleria) con l’uniforme, fiero di indossare il basco amaranto della Folgore. Pavoneggiandomi per il corso principale del paese, incontrai quello che noi ragazzini di fuori chiamavamo “Minerva”, che scoprii, solo più tardi, essere il suo reale cognome.
Era sera, lo riconobbi a distanza, la sua andatura era inconfondibile, peraltro fumava sempre una pipa artigianale. Egli non mi riconobbe finché non mi fu davanti. Mi venne incontro di proposito, riconoscendo a distanza una divisa dell’Esercito. Una volta di fronte, mi osservò negli occhi e mi riconobbe. Non mi chiamò per nome, ma mi disse «buonasera sergente maggiore» e mi fece il saluto militare in maniera impeccabile. Risposi debitamente a quel suo cenno formale della mano. Poi, Minerva iniziò a descrivere le mie insegne, i miei brevetti che facevano bella mostra sulla pettorina della divisa. Insomma, mi fece capire che conosceva abbastanza bene il significato di quegli oggetti. Stupefatto, gli chiesi il perché di quella conoscenza che manifestò con tanta spontaneità. Minerva mi rispose e lo fece raccontandomi parte della sua storia di “Soldato” impegnato in operazioni belliche. Era stato anche lui paracadutista, ma in Africa orientale. Mi trattenne con lui per più di un’ora, lì nello stesso punto dove ci eravamo incontrati. Non si esprimeva in dialetto siculo ma in una perfetta lingua italiana. Ero affascinato da quei racconti e man mano che proseguiva, mi resi conto che non mentiva o inventava… Diceva il vero. Troppi erano i dettagli che mi forniva a ogni domanda con la quale lo incalzavo. Minerva terminò il suo racconto promettendomi di proseguirlo in altra occasione. Non ce la fece più. Non fu la mancanza di fiato o di altro, solo l’emozione lo tradì. I suoi occhi erano gonfi di ricordi dolorosi, di volti di amici e colleghi periti ingiustamente (ci sono giuste cause per cui condannare a morte intere generazioni?).
Tornando a casa, dove ero atteso per cena dai miei parenti, immaginai le ragioni per cui Minerva prese il vizio di bere ed ubriacarsi. Gli occorreva anestetizzare la memoria.
A cena non riuscii a mangiare. Ero troppo preso da quel racconto, dal volto di quell’uomo che avevo sempre giudicato un ubriacone.
Minerva non ebbe più la possibilità di raccontarsi ancora. Compresi che nessuno lo aveva mai ascoltato con quel pathos che io gli manifestai. Morì senza che io ebbi ancora l’opportunità di lèggere “un libro vero e reale”.
Spesso giudichiamo le persone dalle loro facce. Poi, se ci fermiamo ad ascoltarle, a "calzare le loro scarpe", ci rendiamo conto che dietro quei «volti» ci sono storie d’amore, di coraggio, di forza, di virtù.
Di dolore immane.

gfa

«Ciao Minerva»

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