Home

29 maggio 2011

Giuseppe Loteta, uno di noi

Nei giorni scorsi Giuseppe Loteta ha presentato presso l'Ateneo messinese la sua ultima fatica letteraria dal titolo “Romanzo messinese” edito da Pungitopo.

Ma che ci azzecca (ci scusi Di Pietro) Giuseppe Loteta con Mandanici potrebbe essere la prima domanda di quanti non hanno il piacere di conoscerlo. Carneade chi era costui avrebbe detto il don Abbondio manzoniano.

Peppe Loteta è vero che nasce a Messina, è vero che si è trasferito a Roma dove vive ma è pur vero che è legato a quattro mandate a Mandanici e alla sua gente. Le sue radici familiari per parte della mamma Aurelia Longo affondano profondamente a Mandanici ed è pure nipote di Amilcare Longo primo Sindaco repubblicano e comunista democraticamente eletto a Mandanici. La famiglia Longo, una delle più influenti, abitava in Piazza Duomo ove attualmente trovasi collocata la biblioteca comunale ricca di antichi volumi. Purtroppo l'immobile in presenza di tanti coeredi stava andando in rovina tanto da farli decidere ad alienarlo in favore del Comune per fini culturali.

Giuseppe Loteta avendo perduto il suo punto di riferimento fisico a Mandanici non si perse d'animo e ristrutturò un suo vecchio mulino ad acqua posto in contrada Ciatto ricavandone una piccola abitazione più che sufficiente per le sue necessità. Ogni estate puntuale come il caldo lo vediamo per le vie del paese con la Gazzetta del sud (l'unico quotidiano che arriva a Mandanici) sottobraccio o alle prese con una granita al limone, fatta con i limoni. Non disdegna una partita a briscola seduto all'ombra dei nostri cari caciari.

Non tutti a Mandanici conoscono le grandi doti letterarie del nostro compaesano, non tutti sanno che è stato capo servizio del settimanale “L'astrobalaio” fondato da Ernesto Rossi e diretto da Ferruccio Parri, non tutti sanno che è stato commentatore politico del quotidiano romano “Il messaggero”, non tutti sanno che è un valente scrittore e saggista, non tutti sanno che..... Tra le sue opere più importanti:

Messina 1908; Fratello, mio valoroso compagno; Cuore di battaglia-Pacciardi racconta a Loteta; Il ragazzo rosso; tanti altri saggi e infine l'ultimo (per ora) suo lavoro “Romanzo messinese” nel quale diversi dei suoi racconti sono ambientati a Mandanici. Di lui Vanni Roncisvalle dice “i racconti di Loteta sono un concentrato di romanzeria suscettibili di diventare anche altro”.

Ritornando al suo legame con la sua antica terra Peppe Loteta trascorse i suoi anni giovanili a Mandanici sia per la presenza fisica dei suoi numerosi parenti sia per le vicende tragiche dell'ultima guerra quando Mandanici per tanti sfollati divenne uno dei luoghi più sicuri. Le fortezze volanti che scaricavano il loro micidiale carico di morte su Messina si vedevano solo sorvolare Mandanici. In quel periodo c'è un racconto di vita vissuta che mi piace ricordare, ricavandolo da miei appunti inediti, perché ha coinvolto anche l'allora giovanissimo Peppe Loteta.

Mi capitò sotto gli occhi un libro dal titolo c’è un angolo scritto da padre Nunziato Mantarro di Misserio nel quale una lunga parte è dedicata alla vita di tale Peppino Alcanà boss emergente prima e consolidato poi nella nostra vicina terra di Misserio per cui non mi fu difficile fare gli opportuni accostamenti con la nostra malavita, che ad onore del vero non era, e meno male, dello stesso spessore. Avevo sentito dire da bambino che alcuni Mandanicesi erano incappati loro malincuore in una quasi rissa in quel di Misserio. Leggendo padre Mantarro, che mi sembra un estimatore delle gesta del suo Alcanà, (per non confondere le idee continuo a chiamarlo con lo stesso pseudonimo) per la quasi mitizzazione dei comportamenti criminali a tal punto da indicare i prepotenti come eroi e come fessi forestieri e non come vittime di soprusi i malcapitati giovani che venivano da Mandanici per trascorrere una sana scampagnata. Mi sono incuriosito e sono andato alla ricerca della testimonianza diretta di uno dei giovani di allora, (ancora giovane di mente pure oggi con i suoi 87 anni) e per filo e per segno mi raccontò tutta la brutta esperienza avuta nella piazza di Misserio con la stessa lucidità come se la rivivesse per una seconda volta. Aurelio Lenzo incomincia sin dall’inizio, sin da quando insieme ad altri compagni e compagne decisero di saltare la montagna che ci divide da Misserio per fare una scampagnata e nello stesso tempo se ne avessero avuto la possibilità di comprare delle uova e della carne ed elenca uno ad uno tutti i componenti di quella allegra comitiva: Amilcare Longo con suo nipote Peppe Loteta, Paolo Cacciola, Heolo Cogliani, Heos Cogliani, Helda Cogliani (i Cogliani si trovavano sfollati a Mandanici provenienti da Messina) e lui stesso Aurelio Lenzo. Qualcuno di questi è già morto altri sono ancora vivi e vegeti. Eravamo arrivati a Misserio dopo la bella scarpinata necessaria per raggiungere prima la vetta e poi la discesa attraverso gli antichi viottoli scoscesi che pure i missarioti utilizzavano per venire a rimazzare le olive a Mandanici. Giunti presso il lavatoio pubblico (a funtana mantarru con due bocche d’acqua) ci siamo divisi in due gruppi, continua Lenzo,Amilcare con suo nipote Peppe restarono alla fontana essendo più stanchi degli altri, io insieme ai Cogliani e Paolo Cacciola che conosceva i posti per essere originario di quella località andammo per quelle stradine a cercare uova e carne. Amilcare e il nipote si appoggiarono a riposare su un muretto adiacente il lavatoio pubblico e posarono il fucile da caccia a qualche metro di distanza. Quasi sicuramente Amilcare con gli occhi concupiscenti, come ci dice padre Mantarro, profferì qualche complimento fuori luogo alle giovani prosperose. In quel preciso momento si trovava a passare tale Peppino Alcanà che avendo sentito i complimenti rivolti alle sue compaesane, sentendosi investito del potere prevaricatore che gli era riconosciuto in paese, minacciò con toni pesanti e sprezzanti Amilcare e suo nipote a smetterla di importunare e di smammare da Misserio se non volevano incorrere in punizioni più pesanti. Al netto rifiuto di Amilcare il buon Peppino, di padre Mantarro, si allontanò con la sua evidente zoppia, per causa di una scheggia rimediata in guerra e che ancora portava nella gamba, che comunque non gli impediva di muoversi velocemente. Sembrava tutto finito. Invece dopo pochi minuti ritornò e mollò un violento ceffone ad Amilcare che non si era accorto di nulla. Stordito e intontito per il pesante schiaffo ricevuto invitò il nipote a porgergli il fucile che si trovava a qualche metro distante, ma più lesto del nipote fu Peppino Alcanà che agguantato il fucile per le canne lo ruppe sul corpo del povero Amilcare e lo buttò giù per la scarpata sottostante in due pezzi. Successivamente la scena madre del mafioso, esce dalle tasche un grosso coltello, inumidisce di saliva quattro dita della mano destra e poi a modo di affilatura li passa sul coltello e brandendolo cerca di colpire i malcapitati spaventati da tanta inusitata e imprevedibile crudele reazione. Nel frattempo arrivarono gli altri componenti della comitiva mandanicese. A quella inquietante scena intervenne con fare conciliante Heolo, un ragazzone di un metro e novanta, che rivolgendosi all’energumeno che continuava a menare fendenti gli disse: fermati figliuolo, cosa vuoi fare con quel coltello, ti vuoi forse rovinare? Da paciere Heolo divenne bersaglio della violenta reazione del malavitoso che gli tagliuzzò in più parti il cappotto e lo ferì leggermente alle mani. Aggredito Heolo fortunatamente riuscì in qualche modo e con un po’ di fortuna ad immobilizzare l’aggressore tra i pianti e le grida disperate di quanti impotenti assistettero alla scena da cavalleria rusticana. Tra le tante persone che si radunarono arrivò pure un’altra persona, forse zio o amico del Peppino, strattonò il nipote, lo prese sottobraccio e si allontanarono tra le continue minacce pronunciate nei confronti della comitiva fissando loro appuntamento lungo la strada di ritorno per Mandanici. Le minacce erano così persuasive che Paolino Cacciola si ricordò che suo padre don Micio aveva delle amicizie influenti e così andarono a bussare alla porta di tale Domenico Manuli (anagrammato in Nulima da padre Mantarro) che era l’unico in grado di calmare le ire del giovane Peppino. Con tanta paura in corpo, tanta circospezione, rassicurati dal Manuli felicemente e incolumi fecero ritorno a casa. Non ci furono ulteriori strascichi e ripercussioni anche perché molto probabilmente saranno intervenute le buone raccomandazioni degli “amici” che Peppino aveva a Mandanici, paese nel quale successivamente troverà pure moglie. L’anno successivo è stato ammazzato il Nulima. Qualcuno qua racconta perché avendo deciso la banda di andare a rubare una vitella e un vitellino in contrada Occhiazzi appartenenti alla sorella Santa, sposata a Mandanici, questi l’avvisò del pericolo e di nottetempo prima del furto Santa provvide a spostare altrove gli animali. La mattina dopo la porta della casa colonica fu trovata sfondata. Sembra che questa delazione sia stata la causa scatenante per eliminare definitivamente l’elemento spione quand’anche si trattasse del capo. Molto probabilmente un motivo apparentemente futile fu utilizzato per chiudere vecchi rancori e assumerne il comando. Il Nulima porta a casa un pane appena sfornato che gli aveva regalato suo compare Peppino Alcanà (gli aveva battezzato i suoi tre figli) ed esce dicendo alla moglie ho un appuntamento con compare Peppino ma torno subito. Non fece mai più ritorno né il suo corpo fu mai ritrovato,eravamo nell'agosto del 1943 mentre i tedeschi tagliavano la corda. Non tanto tempo prima il Nulima insieme ai suoi compari di Mandanici non si era fatto tanti scrupoli nel rubare un grosso quantitativo di olio alla sorella. Il destino chiuse il cerchio definitivamente sulla brutta avventura capitata alla comitiva quando qualche anno dopo Peppino e suo fratello furono catturati dai carabinieri sulla provinciale Mandanici-Roccalumera, vicino alla casa di Agatino Giudizio a Pagliara, mentre insieme ad altri undici compari, di cui due mandanicesi che riuscirono a dileguarsi, stavano preparando uno dei loro colpi in quel di Santa Teresa di Riva. Nel tentativo di evadere dal carcere Carrubbara di Messina fu gravemente ferito dai Carabinieri e trasportato nel vicino ospedale Piemonte. A prestargli le prime cure per strapparlo alla morte, che purtroppo si rivelarono inutili, fu un tal dottor Helio Cogliani fratello di quell’Heos che in quel grigio giorno di qualche anno prima aveva rischiato la propria vita nel tentativo di rappacificare gli animi e di riportare sulla retta via il giovane Peppino. Quei malandrini da strapazzo, come li definisce padre Mantarro, fecero la loro strada. Amilcare divenne il primo Sindaco dell’era repubblicana di Mandanici, Peppe Loteta affermato giornalista del Messaggero di Roma, Aurelio Lenzo insegnante, Heos Cogliani insegnante, Preside e scrittrice, Heolo Avvocato di cassazione a Roma, Helda professoressa, Paolo Cacciola affermato macellaio. Nello stesso tempo la morte di Alcanà rasserenò gli animi di quanti temevano di essere coinvolti nell’eventuale chiamata in correo.

Sarebbe veramente interessante leggere la trama di questo episodio vero sviluppato su qualche prossimo romanzo di Peppe Loteta , penna mandanicese veramente formidabile.