26 ottobre
2011
Giuseppe
Loteta e i suoi romanzi. Giuseppe
Loteta è sempre con la penna, pardon !, con la tastiera del computer in mano
a scrivere romanzi e noi siamo ultracontenti di poterlo ospitare nel nostro
sito. Insieme a Rosinella Celeste e a Giulio Romano attualmente
rappresentano gli archetipi culturali di quanti hanno a cuore le sorti di
Mandanici. Il risveglio di una Comunità stanca passa anche attraverso queste
iniziative. Mandanici rappresentava nell'intera zona una società operosa e
vitale facendo dell'olio il suo punto di forza e di riferimento economico e
sociale che per molti decenni ha consentito ai residenti di viverci in modo
decente. Finito l'olio, non siamo più riusciti a ricamarci addosso una nuova
peculiarità, non siamo riusciti ad inventarci nuove opportunità di lavoro, a
sviluppare nuove idee compatibili con il territorio, siamo rimasti
frastornati, non sappiamo dove andare per restare in questo meraviglioso
angolo di Sicilia.
SI
TORNA A CASA
Don Chisciotte e Sancio Panza. Erano dello stesso paese, Mandanici, in
provincia di Messina. E a dar loro quei due nomi famosi grazie a Cervantes
era stato il capitano Morelli, che li conosceva bene. Il tenente Pietro
Crimi poteva essere definito anche D’Artagnan o Cirano di Bergerac per il
suo temperamento e la sua audacia. Ma don Chisciotte gli calzava come un
abito attillato per l’incoscienza che spesso lo spronava ad azioni che
avrebbero richiesto maggiore consapevolezza. Sancio era il sergente Peppino
Scuderi, il suo alter ego, ma anche il suo contraltare, la voce del buon
senso che lo frenava nei momenti in cui il tenente si lasciava andare al suo
ricorrente donchisciottismo. La guerra, fino a quel momento, l’avevano fatta
tutta insieme, dalle nevi d’Albania ai deserti africani. Ed ora, a poco più
di tre anni da quel 1940 in cui Mussolini annunciava al mondo l’entrata
dell’Italia nel secondo conflitto mondiale, erano impegnati in una disperata
resistenza alle forze cento volte superiori degli angloamericani sbarcati in
Sicilia.
Con loro erano i tedeschi, ma che differenza tra l’efficienza e la potenza
dei mezzi bellici della Wermacht e l’approssimazione dell’esercito italiano.
Ai tedeschi non mancavano aerei, carri armati, armi leggere e pesanti,
munizioni, benzina, divise confortevoli, cibo più che sufficiente. I nostri
soldati non avevano quasi niente di tutto questo. E tuttavia facevano ciò
che potevano in una guerra che non li entusiasmava e con un alleato che
francamente detestavano. La propaganda fascista dipingeva i tedeschi come
tanti “camerata Richard” che, secondo la “canzone del tempo di guerra”
frequentemente diffusa dalla radio, dividevano “pane e morte” con i camerati
italiani. Ma la realtà era un’altra. Convinti, non del tutto a torto, di
potere diventare i padroni del mondo, i tedeschi sfoggiavano arroganza e
disprezzo per tutto ciò che non era teutonico. E trattavano gli italiani da
subordinati, altro che alleati.
Il
tenente Crimi masticava amaro, ma il suo limite di sopportazione era
piuttosto basso. E spesso aveva reagito con fermezza alla protervia tedesca.
Come quella volta che in pieno deserto africano, attraversato a piedi dal
suo plotone nel lungo tratto che separava il fronte del fuoco dalla
retrovia, aveva chiesto agli ufficiali di Rommel che viaggiavano su un
blindato di portare con loro un soldato italiano ferito. E, al loro rifiuto,
nell’incerto tedesco che aveva studiato al ginnasio, aveva gridato: “Forse
lui non arriva vivo, ma non arriverete vivi neanche voi”. E aveva tolto la
sicura a una bomba a mano, indietreggiando e preparandosi a lanciarla sui
tedeschi. Caricato di forza sul blindato, il ferito aveva raggiunto in tempo
l’ospedale da campo. Il sergente Scuderi quella volta non aveva trovato
nulla da ridire. Anzi, ricordando i racconti del padre, fantaccino nella
prima guerra mondiale, aveva mormorato compiaciuto: “Sempre crucchi sono”.
Un’altra volta, in Albania, si era rifiutato di far fucilare un disertore
del suo plotone che una pattuglia tedesca aveva scovato mentre cercava di
nascondersi tra gli alberi di un bosco che sorgeva a poca distanza dal
distaccamento italiano. Il fuggiasco gli aveva fatto pena. Era un siciliano
molto giovane che conosceva bene. Non era un campione di eroismo, ma neanche
un vigliacco. Per darsi alla fuga, qualcosa doveva aver funzionato male nel
suo cervello. E che fuga, poi. Aveva camminato per un giorno intero nella
neve senza sapere dove andare e facendo inconsciamente grandi giri
concentrici che lo riportavano al punto di partenza. Quando i tedeschi
glielo misero davanti, il tenente vide un ragazzo impaurito, tremante, con
la divisa lacerata in più parti dai rami degli alberi e quasi distrutti gli
scarponi facili a sfondarsi che l’esercito italiano forniva ai suoi soldati.
Mormorava parole senza senso che non erano frutto di finzione, ma sintomo
autentico di disturbo mentale. Altro che plotone d’esecuzione, come i
tedeschi esigevano e come le leggi di guerra, per la verità, prevedevano.
Tra l’italiano e i tedeschi volarono parole grosse. Inutilmente il sergente
lo tirò più volte per la manica. Il sottotenente cacciò in malo modo i
tedeschi e mandò il ragazzo in infermeria, in attesa di farlo ritornare al
suo posto una volta che si fosse rimesso. I tedeschi protestarono con il
comandante del reggimento, ma la cosa finì lì.
Ora la guerra era arrivata nella loro terra, in Sicilia. Il capitano Morelli
era morto e al tenente Crimi era stato provvisoriamente affidato il comando
della compagnia. Don Chisciotte aveva tentato più volte una sortita, ma non
c’era stato niente da fare. Dalle navi nemiche era sbarcato un formidabile e
inarrestabile esercito. Superando ogni resistenza, gli inglesi si erano
diretti verso Catania e gli americani verso Palermo. Agli italiani e ai
tedeschi fu dato l’ordine di ritirarsi. La compagnia di Crimi fu l’ultima a
lasciare l’avamposto che le era stato assegnato. Tenne la posizione anche
quando l’avevano abbandonata perfino i tedeschi. Poi non ci fu niente da
fare. L’ordine era di dirigersi al più presto a Messina, dove si sarebbero
imbarcati per il continente. Dovevano arrivarci prima degli anglo-americani,
ma non era facile con i mezzi che avevano a disposizione. La compagnia era
composta in gran parte da siciliani, che conoscevano il territorio.
Percorrendo strade secondarie, chiedendo informazioni agli abitanti, senza
fermarsi, neanche quando la stanchezza toglieva loro il respiro, arrivarono
finalmente alle porte di Messina.
Alle prime case della città il sottotenente cercò di orizzontarsi.
Inutilmente. Non era certo la prima volta che ci veniva. Qui si era laureato
e aveva passato molti anni della sua vita. Ma in quel momento vide soltanto
case distrutte, macerie, strade scomparse. E non era finita. Proprio in quel
momento l’ennesimo bombardamento aereo li costrinse a fermarsi e a cercare
riparo. Poi, orizzontandosi con il mare che ogni tanto si affacciava alla
loro destra tra i palazzi sventrati, arrivarono al porto. Dove, nella
confusione generale, navi, zatteroni, natanti di ogni tipo imbarcavano i
soldati italiani e tedeschi. Molti fuggiaschi trovavano la loro tomba nello
stretto di Messina, mitragliati e bombardati dagli aerei americani. Altri,
meno sfortunati, raggiungevano la costa calabrese e ricostituivano quello
che restava delle loro formazioni. La compagnia di Crimi era ancora distante
dalle navi, dietro i reparti che erano arrivati prima, quando furono
affiancati da un reggimento tedesco. In testa, un colonnello e altri
ufficiali, su un autovettura scoperta; dietro, gli autocarri con i soldati.
Il
colonnello si affacciò dalla vettura. Parlava un ottimo italiano. “Chi è il
vostro comandante”, chiese. “Sono io”, rispose Crimi. “Bene, le ordino di
lasciarci passare”. “Perché?” “Perché i tedeschi hanno diritto di
precedenza”. “A casa vostra forse. Qui no. Si metta in fila con i suoi
uomini e non faccia storie”. Il colonnello sembrava sorpreso, non
s’aspettava un rifiuto. “Tenente”, gridò, “lei mi costringe ad usare le
maniere forti”. No, questo era troppo. In Crimi si risvegliò don Chisciotte.
“Provaci, imbecille”, rispose. E poi, rivolto ai suoi uomini: “Schieratevi
sulla strada. Imbracciate i moschetti e al mio comando fate fuoco”. Il
sergente Scuderi impallidì: “Madonna, tenente, questi ci massacrano”. Non
aveva torto. Meno di cento uomini male armati contro la potenza di fuoco di
un reggimento della Wermacht! I tedeschi, a un secco ordine del colonnello,
circondarono la compagnia italiana. Ma lo scontro fu evitato. Ciò che stava
accadendo non poteva passare inosservato, neanche nella confusione
dell‘imbarco. E tra i contendenti si interpose un gruppo di alti ufficiali
dei due eserciti. Un colonnello italiano prese da parte il tenente: “Che
cosa vuol fare? Metta via quei moschetti”. E poi, con tono conciliante: “Io
la capisco. Anche per me comincia ad essere difficile distinguere tra
alleati e nemici. Ma non c’è niente da fare, per ora, almeno. Non possiamo
spararci tra di noi con gli angloamericani a pochi chilometri. Li lasci
passare. Prima o poi in Calabria ci arriviamo tutti, se ci arriviamo”.
Il
tenente Crimi rimase qualche istante in silenzio. Poi prese una decisione
improvvisa. “Va bene”, disse al colonnello. E, rivolto ai suoi uomini:
“Allontaniamoci dal porto”. Si fermarono in una piazzetta vicina. E lì il
tenente parlò. “Forse bisogna ringraziare il colonnello tedesco”, disse,
“perché senza di lui ora saremmo imbarcati su una di quelle navi con due
possibilità: finire in bocca ai pesci o continuare ancora per qualche tempo
una guerra perduta, che non si doveva fare, con i tanti compagni morti che
abbiamo lasciato per strada e con gli alleati che abbiamo imparato a
conoscere. Ma c’é una terza strada ed é quella che dobbiamo percorrere. Noi
il nostro dovere lo abbiamo fatto sempre. più di quanto ci era stato
richiesto, in condizioni spesso disastrose. Adesso basta. La compagnia si
scioglie. Molti di voi sono siciliani e possono finalmente tornare a casa.
Portate con voi, per tutto il tempo che sarà necessario, quei compagni del
nord che, altrimenti, non saprebbero dove andare. Riabbracceranno i loro
cari a guerra finita. Io vi ringrazio tutti. Per me siete stati e siete dei
fratelli. Buona fortuna”.
Il
caporale Colombani era veneto. Zoppicava leggermente per i postumi della
ferita a una gamba. E non era più giovanissimo. Ma questo non gli aveva
impedito di comportarsi con coraggio in tutte le azioni alle quali aveva
partecipato. “Tu vieni con noi”, gli disse il tenente. E poi, rivolto al
sergente Scuderi: “Andiamo, Peppino, Mandanici ci aspetta. Cinquanta
chilometri a piedi non sono molti. Ne abbiamo fatti di più in Africa”. Per
loro la guerra era finita.
Giuseppe
Loteta |